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21 ott 2016

Lucus Likos: una storia

Io protagonista in un racconto...


Lucus Likos ...nel sud del nord... 

 di Valerio Giora


Giorno 17.09.
Mi ero riproposto di non ripercorrerla più la SA/RC ma una serie di circostanze avverse mi fece venire meno a quel proposito. Così contrariato, mi ritrovai nuovamente al cospetto dell’incompiuta arteria autostradale. Non lo sò cosa mi fece riflettere. Forse mi fu d’aiuto una delle tante attese, che permisero al mio pensiero di vagare, anche se ritengo che fu probabilmente determinante la lunga esposizione ad un sole così cocente, da apparire più agostano che di fine settembre.
Quello che posso dire e che quasi all’improvviso, mi resi conto che quell’autostrada aveva degli aspetti su i quali non avevo mai riflettuto e che mi apparvero nella loro essenza strabilianti. Cinquant’anni, mezzo secolo ed era ancora lì! Mi si presentò come una meravigliosa cinquantenne, dedita al più antico mestiere del mondo. Traboccante di vita, sfidava le critiche, le proteste, incurante di tutto e di tutti. Quanta ricchezza aveva prodotto con i suoi appalti e subappalti. Quante Mercedes, BMW, le organizzazioni criminali avevano acquistato in Germania nel corso di tutti questi anni! Quanti investimenti con quei soldi al Nord … Milano uno … Milano due … la Milano da bere … Quante inchieste parlamentari e giudiziarie … e al seguito quanti studi legali si erano arricchiti. Quanti commercialisti … E la politica con le sue promesse elettorali … i suoi voti di scambio … Ero arrivato al punto di augurarmi che non venisse mai finita. Siamo seri! Se fosse stata ultimata a suo tempo, con tutto il rispetto per Reggio Calabria, avrebbe mai potuto questo capoluogo di provincia, generare tanta ricchezza, tanto interesse mediatico? Mi accorsi che bastò chiudere i finestrini dell’auto e accendere il climatizzatore d’aria, che tutto lentamente si dissolse e scomparve così com’era venuto. ore 13 arrivo a Rotonda. Fui ospite a pranzo a casa di Giuseppe Cosenza, la guida del Parco del Pollino alla quale mi affido per le mie escursioni e le mie ricerche. Anche in quest’occasione ebbi modo di raccogliere, un’ulteriore testimonianza della nobiltà d’animo che distingueva Giuseppe. Mi accorsi, che tra i numerosi gatti e cani randagi raccolti da lui stesso, nel circondario, vi era un gattino con sole tre zampe, che felice, nonostante la grave menomazione, zompava tra i suoi consimili. Mi spiegò Giuseppe, che questi era vittima di un investimento stradale e che raccolto e portato da un veterinario, dopo un delicatissimo intervento si era ristabilito. Devo dire che nonostante l’accoglienza e la serenità che sprigionava il posto, mi sentii un po’ spaesato. Mi venne a mancare quella sorta di complicità che mi aveva qui dato l’ultima volta l’inverno. La sua essenza, quel gioco di luci ed ombre sul bianco candore di neve … Ora quei colori vivaci, per nulla tardo settembrini, ma prettamente estivi, con quei profumi persistenti, quelle mosche invadenti, mi avvolsero distraendomi … e tutto sembrava dilatarsi assieme ai pensieri che mi sfuggirono … I briganti della nostra mente … le nostre rabbie … le nostre rivolte … si stemperarono. Mi venne, nel corso del pranzo, prospetta la possibilità di visitare una grotta ai più sconosciuta, in una remota, non meglio specificata località, dove si diceva, andavano a pregarvi i briganti. E sempre in tema di briganti, Giuseppe m’informava di avermi procurato, ciliegina sulla torta, un incontro con uno scrittore lucano, le cui pubblicazioni erano esposte all’interno dell’agriturismo di Francesco, dove le avevo già notate lo scorso inverno, quando ero qui sulle tracce del lupo. Le premesse erano buone e migliorano quando, raggiunto l’agriturismo dove alloggiavo, durante la cena, come al solito squisita, Francesco si offrì ad accompagnarci l’indomani mattina a una grotta dove a suo dire, i briganti vi andavano ad ascoltare la messa. Fece una piccola premessa, il suo era un ricordo che risaliva a quando era ragazzo, lui il posto lo aveva visto solo da lontano, sul versante della montagna che sperava l’indomani mattina, di riuscire a individuare. Vi erano, alloggiati quella sera, oltre a me, due coppie di stranieri, giovani e simpatici con le quali Giuseppe, padrone della lingua inglese, s’intrattenne lungamente, sia a parlare del parco, che facendoci da interprete a me e a Francesco, nonché accennando ai programmi che avevamo per il giorno dopo. Il problema sorse quando a una certa ora, Giuseppe rincasò e noi rimanemmo a spiegarci a gesti. Fui costretto a dar fondo al mio povero inglese fatto di monosillabi, (Francesco né sapeva meno di me) ma quando arrivai al dover tradurre la parola “brigante”, capitolai e preferii coinvolgere i miei interlocutori in un ennesimo giro di grappe, cosa questa che sortì a rendere la buona notte, talmente calorosa, che sembra ci fossimo conosciuti da sempre.  

Giorno 18.09. Mattino, la partenza. Affidandosi a quel ricordo piuttosto lontano, Francesco arrivava a fatica e dopo qualche tentativo andato a vuoto, all’individuazione della grotta, che da lontano appariva come una stretta fessura verticale, simile ad un genitale femminile. Nascosta dalla vegetazione, si affacciava, su di un ripidissimo pendio, che in taluni tratti, cadeva a strapiombo su di una piccola e stretta valle quasi impenetrabile, tant’era coperta d’arbusti e fitta di rovi di more. Era percorsa, per tutta la sua estensione, dal letto di quello che nella stagione invernale, era un torrente. Alle ore 11 circa, Da quella che gli abitanti del luogo denominano località: “scaldacane”, dopo essere scesi lungo il letto del torrente e averne percorso un lungo tratto, al fine di evitare l’insidia dei rovi e gli ostacoli resi dagli arbusti, passammo sul versante opposto, iniziando così una salita a tratti molto ripida e costantemente ostacolata da rami e radici di ogni tipo. Liberata a fatica, dagli ultimi arbusti che gli ostruivano l’ingresso, si aprì ai nostri occhi la grotta.
Non vi era nulla d’inquietante, né tantomeno di sinistro. Anzi, piccola e accogliente, per quanto può esserlo una grotta, mi apparve come un rifugio di anime e di corpi succedutisi nel tempo e a dispetto del posto, che per sua natura evocava un succedersi di presenze unicamente maschili, ebbe su di me una sensazione opposta, rimastami tuttora inspiegabile. Mi parve che in quel luogo, qualcosa vi parlasse al femminile. Riuscimmo a ricostruire, da alcuni incavi praticati sulle pareti e posti in linea d’aria paralleli tra loro, di come questi fossero serviti per appoggiarvi delle tavole, sul cui utilizzo formulammo varie ipotesi, tutte valide e pertanto, nessuna certa. Rinvenimmo sul lato destro, vicino all’ingresso, le tracce inequivocabili che lì, per lungo tempo, si era abitualmente acceso il fuoco. Ma la cosa che maggiormente ci colpì, fu il rilevare sulla parete destra, rispetto all’entrata, un affresco che copriva una superficie quadrangolare, che se ben ricordo, poteva essere di circa sessanta c.m., il quale, in pessimo stato conservativo, lasciava intravvedere un’indistinta figura centrale, mentre lungo il bordo dell’opera, si ripetevano, fino a dove erano ancora visibili, degli indistinti motivi ornamentali di un colore chiaro, indefinito. I colori che invece ancora avevano mantenuto la loro identità, erano principalmente due, costituiti da un rosso ed un blu, aventi una tonalità riconducibile alla scuola bizantina. La quasi inaccessibilità del luogo, unita alle distanze notevoli per l’epoca, da un centro abitato, che fosse in grado di avere a disposizione una maestranza all’altezza di produrre un’opera del genere, ci fece ritenere che la grotta doveva per forza essere stata, per il passato, un luogo di culto di notevole importanza. Di questo, ne diede conferma Giuseppe, il quale affermò che di tutte le altre che lui aveva visitato, sparse nell’area, ed erano molte e più accessibili di questa, nessuna aveva un’opera di tale fattura, al più si limitavano a semplici, grossolani, segni monocromi. Eravamo soddisfatti, era stata una scoperta per tutti, anche per Francesco e Giuseppe, i due “indigeni”. Ritornammo alla località “Scaldacane” e con l’aiuto che ci venne dato da una donna anziana del luogo, avemmo l’indicazione tramandata dai vecchi, dove si raccontava di come in quella piccola piana, che noi avevamo poco prima attraversato, nel periodo dell’invasione piemontese, i briganti, gente che veniva da fuori, e ci tenne a ribadirlo, vi ascoltavano la messa. Questa era officiata da un eremita che si affacciava da lassù in alto, e sorridendo indicò con la mano, il posto da dove noi eravamo da poco discesi. Aggiunse anche che ogni tanto, questi, spinto dal bisogno di nutrire, oltre che lo spirito, anche la carne, vi faceva scendere una corda con un cesto, dentro di cui la gente del posto, vi poneva un’offerta di cibo. Ripensandoci, mi ritornò alla mente di come effettivamente, affacciandomi dalla grotta e spaziando con lo sguardo su il paesaggio, avevo notato, in lontananza, le poche case dell’abitato in cui ora ci trovavamo, e sotto, ben visibile, la piana di cui parlava l’anziana. Questo dunque era il posto di cui si era parlato, dove si celebrava la messa. Non vi era un altare, non era così, i briganti la ascoltavano all’aperto, ma ciò non toglieva originalità e soprattutto solennità all’evento. Tutt’altro, una messa ricevuta così dall’alto, avrebbe fatto invidia ad un re! Ore 21 Dello stesso giorno. Si realizzò,  a Lauria, all’interno di una trattoria di cui non ricordo il nome, il preannunciato incontro con lo scrittore meridionalista prof. Vincenzo La Banca.
 Era stato questi un professore di liceo di Giuseppe, con il quale lo stesso aveva mantenuto a distanza di anni, ottimi rapporti. La cena si svolse in un clima che potrei definire interessante, anche se nella sostanza, non apportò nulla di nuovo a quanto avevo letto in merito al fenomeno sul brigantaggio. Quello che però, involontariamente, sortì la lunga, documentata oltre che appassionata esposizione fattami dal professore di quei lontani accadimenti, mi fece provare, in ragione della mia provenienza geografica, l’insensato disagio di appartenere in qualche modo, a quel popolo invasore che aveva così maltrattato quelle terre. Infatti, ricordo che dopo aver dovuto, a mio malgrado, digerire il giudizio che si dava nei confronti dell’operato di Garibaldi, ritenuto: “un delinquente opportunista a capo di una masnada di ladri e assassini”; complice un bicchiere di vino in più, varcai il limite che mi ero imposto, quello di ascoltare e prendere nota. Non potendo ora che affidarmi alla memoria e quindi sottostando alle inevitabili omissioni che essa comporta, riporto qui di seguito quello che grosso modo e per sommi capi, dissi nel seguito della conversazione. Feci notare al professore che se con il meridione, lo stato sabaudo era stato duro e in alcuni casi spietato, non era stato di certo tenero nei confronti di altre provincie del nord, dove vi era presente una miseria, soprattutto nelle aree agricole, che eguagliava se non superava, quelle del sud e dove per secoli il fenomeno del brigantaggio era stato di casa. Ma volli entrare, seppure in punta dei piedi, in quanto non ne avevo titolo, su alcuni aspetti della questione meridionale, che mi avevano fatto riflettere. Uno in particolare mi aveva colpito, il constatare che dai generali infedeli e codardi dell’esercito di S.M. Francesco di Borbone, alla proprietà terriera con le sue baronie e i suoi feudali privilegi, avevano responsabilmente concorso a tradire per primi la propria terra, la propria gente. Il brigantaggio era stato sì la legittima reazione all’invasione piemontese, ma era anche stato la conseguenza dell’inettitudine, dell’ignavia, della classe dirigente borbonica. Dissi in definitiva, che per me, quei briganti, che io preferivo chiamare: “quegli uomini”, erano stati traditi due volte. La prima, da subito, al primo cozzar d’armi, dall’incapacità, dall’incertezza di chi era deputato a rappresentarli e a difenderli. La seconda, se possibile più grave della prima, avvenne più tardi, quando “quegli uomini”, si dimostrarono militarmente, ma soprattutto a livello organizzativo, inadeguati a sostenere uno scontro che nel diventare sempre più impari, li conduceva irrimediabilmente ad un esito scontato. Divennero ben presto scomodi e ingombranti, pericolosamente ingestibili. Traditi dalla loro stessa gente, vennero consegnati vivi o morti alle autorità piemontesi. E’ vero che spesso fu per denaro, per la taglia, e che alcune volte fu motivato da vendette private, da rancori, ma in altre occasioni e non furono poche, avvenne per compiacere l’invasore. Quel “compiacere” altro non era se non il materializzarsi di un calcolo politico, espressione questa di una classe sociale dominante, che gattopardescamente, dietro le quinte, aveva già raggiunto con le nuove autorità, lo scopo di mantenere intatti i propri privilegi. Ricordo bene di come il volto del professore, lasciò trapelare una certa sorpresa, che sottolineò dicendo: “ non lo sapevo …”, quando gli dissi che il fautore e sostenitore della famigerata legge Pica, fumo negli occhi per ogni meridionalista, era l’onorevole deputato Giuseppe Pica, un meridionale. Questo è grosso modo quello che dissi. Quello che avrei voluto aggiungere riassumendolo in una frase era: “ bene professore, abbiamo appurato che noi abbiamo una verità inconfessabile con la storia Patria e voi un’altra, vediamo di dirla assieme e una volte per tutte, guardando avanti, di farla finita”. Non lo proferii, forse perchè non mi vennero le parole … o forse … perché sarebbe stato alla fine inutile in quel contesto. Penso ora a distanza di tempo, che a quel tavolo, emerse effettivamente una verità inconfessabile, ed era relativa alle due classi dirigenti sia del nord che del sud, inadeguate e senz’altro subalterne nella scena politica internazionale dell’epoca. Portarono ambedue una dote ben misera. Due popolazioni diverse, accomunate da un’arretratezza culturale e materiale che le accompagnò volenti o nolenti, a loro malgrado, a percorrere sino ad oggi in un unico destino, la storia di questo paese. Ed è forse per questo, che a distanza di un secolo e mezzo, “quegli uomini”, non trovavano ancora pace.

19.09. I mortai

Questa fu la giornata dedicata ai mortai in pietra nascosti nei boschi e utilizzati dai briganti per preparare la polvere da sparo, dove si narrava che uno di questi era di proporzioni enormi. Giuseppe, su indicazione di Francesco, che gli raccomandò di presentarsi a suo nome, contattò nella tarda mattinata, l’uomo che avrebbe dovuto darci le indicazioni. Era questi un cinquantenne di bassa statura, ed era il suo un interloquire cosi rapido e in dialetto, che vi capii poco o nulla. Quello che compresi da subito bene, fu che si era sin dall’inizio un po’ infastidito. Aveva gli animali al pascolo, lo rimarcò più volte, indicandoli lungo la piana che avevamo di fronte a noi. Cominciai anche a rendermi conto, che rischiavamo di non avere il suo aiuto e tentai il tutto per tutto. Gli dissi che non importava, che capivo che aveva altro da fare e che lo ringraziavo di cuore lo stesso, anche perché, e lo sottolineai più volte, dubitavo sull’esistenza di quei mortai di pietra. Due occhi mobili, attenti, incorniciati da un volto scuro dalle fattezze mediorientali, finalmente mi guardarono. Sapeva cosa cercavamo e forse da quel momento, lo volle anche lui. Ci disse di ritornare lì tra un paio d’ore, doveva sistemare gli armenti. Ritornammo in anticipo sul posto e lo trovammo che era già lì che ci aspettava. Disse che il mortaio si trova distante da dove eravamo, indicando con la testa la direzione della faggeta, che si trovava verso nord e che delimitava la vasta radura dove ci trovavamo. Aggiunse, che non sarebbe stato facile trovarlo, in quanto era un ricordo il suo, che risaliva a quand’era ragazzino e vi andava a raccogliere ramaglie e funghi assieme ai coetanei del posto. Così, in quel primo pomeriggio d’autunno, preceduti da Caporale Domenico, detto “tiritinno”, ci inoltrammo nel bosco. Mi accorsi da subito che non esisteva sentiero, se non quello invisibile che percorreva la mente di chi ci guidava. Non aveva incertezze, procedeva leggero, sembrava non sentire fatica e pendenze. Era il suo un percorso della memoria e al fine di rendermi partecipe, si espresse in italiano. “Qui passavano con i muli e lì caricavano di legna … e là in fondo, dove ci sono quelle rocce sporgenti, si facevano scendere i grossi tronchi di faggio … più avanti, dove ci sono quelle rose, vi era un sentiero, ora andato perduto, dove si saliva con le pecore … qui, dove stiamo passando c’era l’acqua, scorreva e ve ne era tanta per tutta l’estate …” accompagnato da un accenno di sorriso, il ricordo che in quel posto si era anche giocato da ragazzi a rincorrersi e a nascondino … era lì, proprio lì, tra quelle rocce ricoperte di muschio”. Breve stagione, strappata con l’energia dell’età, e mai più ritornata, in un continuo percorso di vita fatta di solitudine e mal ricompensata fatica. Poi all’improvviso, in concomitanza con l’avvicinarsi a degli enormi massi bianchi e grigi, che si fecero prepotentemente largo tra gli alberi di faggi di notevoli dimensioni, e di veneranda età, il suo passo si fece via via più incerto … inciampava ora la memoria. Ci invitò a dividerci, pur mantenendoci a vista, cercando ognuno per proprio conto lungo il perimetro dei grandi massi. Dopo un breve lasso di tempo, la voce quasi concitata di “tiritinno”, ci invitò a raggiungerlo. Quando arrivai, Giuseppe era già lì. Il mortaio, ricavato da un piccolo masso che porgeva dal terreno, leggermente staccato dagli enormi consimili che lo sovrastavano, stava ai nostri piedi. Quasi letteralmente coperto di foglie morte, portava i segni inequivocabili dell’opera dell’uomo. Aveva questi una forma circolare, grossolanamente sbozzata, ove vi era stato scalpellato, per una profondità di circa una ventina di c.m., un foro cieco, perfettamente circolare, di una quarantina di c.m. di diametro. Attorno a quel mortaio, riaffiorarono nella voce di “tiritinno”, simili alle foglie morte che lo ricoprivano, anche i frammenti dei racconti fatti dai vecchi su questi luoghi: ” … erano accampati qui … poco lontano c’era una baracca … era gente che veniva da fuori … da lontano … qui in questo posto, molti anni fa, hanno trovato delle monete e delle armi nascoste sui tronchi, ma le monete erano vecchie, non spendibili, così come le armi inutilizzabili e pertanto chi le aveva trovate, non dandovi nessun valore, aveva fatto sì che andassero disperse …” In seguito, non ci volle molto a Giuseppe nel convincerlo a portarci a quel secondo mortaio, che a dire dello stesso, e nel ribadirlo, vi allargò le braccia più volte, era di grandi dimensioni, sì da definirlo enorme. Il tempo di rientrare alla macchina e poco prima del calar della sera, ci ritrovammo di nuovo dentro il bosco, sul lato opposto e molto più in basso, verso il paese di Rotonda. Fu un tragitto relativamente breve quello che ci aspettò, percorso su di una traccia di sentiero sdrucciolevole che scendeva ripido, all’interno di un intricato sottobosco accompagnato a tratti, da un sottostante torrente. Se ne intuiva solo l’esistenza, in quanto, la vista ci venne costantemente preclusa, dalla fitta vegetazione presente.

Dopo aver percorso un tratto di sentiero piano, alla nostra destra, lungo una parete di roccia calcarea bianca, alla nostra vista, si aprì una grotta di ragguardevoli dimensioni, dalla quale spiccava, posta quasi all’ingresso, leggermente inclinata rispetto al suolo, quella che all’apparenza sembrava la ciotola di un titano abitante in quel luogo. Era il secondo mortaio, e non ebbe bisogno di presentazioni. Era effettivamente di dimensioni ragguardevoli, e a differenza del primo, ricavato completamente dalla roccia. Sommariamente sbozzato, poteva avere un diametro di oltre un metro, mentre il foro praticato, perfettamente circolare e ben levigato, era del diametro di oltre sessanta centimetri, con una profondità simile al mortaio in precedenza ritrovato. Ci fu spiegato che l’anomala posizione nella quale veniva a trovarsi il manufatto, era dovuta a un maldestro tentativo, risalente a un non meglio specificato periodo, quando si era tentato di trafugarlo dal sito, e a tale proposito, ci fu indicato all’interno della caverna, il posto, dove in origine posava il grande mortaio. Il tutto ci venne mostrato e descritto con una punta di orgoglio. Era il suo mondo, la storia della gente alla quale apparteneva. Ritornammo sui nostri passi, lasciando che la grotta, raggiunta dalle prime ombre della sera, rimanesse indisturbata custode del suo monumento e di tutti quegli uomini, oramai senza nome e senza volto, chiamati briganti. Avremmo dovuto, dopo la risalita, lasciarci subito e invece, complici alcune domande formulate da Giuseppe su come andavano le cose al compaesano allevatore, questi disse che aveva problemi con l’acqua, con le bestie che gli venivano di anno in anno pagate sempre meno. Tutto questo in parte lo capivo, e in parte, la maggiore, lo presumevo, in quanto i due avevano ripreso a parlare in dialetto.

Vi era stato un momento, nel corso della conversazione, che però attirò la mia attenzione e fu quando intuii che alcuni problemi che lo affliggevano, erano originati da una convivenza diventata difficile, una presenza che aveva un’origine, un volto. La indicò senza pronunciarla, rivolgendo il mento in direzione della montagna che si trovava di fronte a noi e segnava con il suo dolce profilo, che diventava via via con il calar della sera più scuro, il confine da dove iniziava la terra di Calabria. Fu senz’altro la presenza di Giuseppe, a fargli vincere l’iniziale ritrosia, anche se parzialmente, in quanto quello che disse, lo lascio più nell’intendere che nell’affermarlo. Vi erano da tempo, forse da sempre, problemi di vicinanza con qualcuno che veniva giù da quel monte, furti di bestiame, soprusi per l’utilizzo del parco, sfociati anche in atti di violenza, qualcuno sparato, qualcuno a monito, fatto trovare impiccato a un albero. A supportare quanto stava narrando, si aggiunse Giuseppe, che raccontò di un episodio di cui era stato protagonista anni addietro, quando era stato fermato in malo modo da una signora ottantenne, conosciuta possidente, di estesi territori Calabro-Lucani, solita, nonostante l’età, a percorrere sia i propri appezzamenti, che quelli degli altri, a cavallo, armata di fucile. In quell’occasione, la gentildonna, ingiunse al malcapitato Giuseppe, con il tono autoritario di chi è abituato al comando, di recuperargli seduta stante, alcuni armenti che si erano dispersi nella boscaglia. Forse il rifiuto di Giuseppe non sarebbe passato inosservato, se nel frangente non fossero comparsi degli uomini, che evidentemente si trovavano al seguito della donna e provvidero al recupero del bestiame. Era intanto così scesa la sera che si era fatto quasi buio. Si fece silenzio, era ora di ritornare alle macchine, ognuno per la propria strada. Nel mentre salutavo e ringraziavo“tiritinno”, guardandolo in faccia mi resi conto che lui, i briganti, gli aveva visti e gli avrebbe inevitabilmente rivisti ancora di persona. Non erano mai spariti del tutto i briganti, non erano mai andati via, così come il lupo, decimati, ristretti in aree alla periferia del mondo; seppur adattandosi al nuovo che avanzava, erano stati irriducibili nel mantenere le loro caratteristiche di fondo. Fuori dai finestrini della macchina era oramai padrona la notte, Giuseppe non si accorse, stava guidando, ma mi venne da sorridere. Rammentai di quando da bambino, mio padre, mi raccontava la favola di Pinocchio. Ricordai uno dei brani che più colpivano la mia fantasia, dandomi un brivido di paura, di fronte a quella parola carica di minaccia e di mistero: briganti! “torna indietro Pinocchio! la notte è buia e piena di briganti!” e Pinocchio testardo burattino, rispondeva: “voglio andare avanti!”. Avevo scoperto a 61anni, che mentre io avevo timore dei briganti, i miei coetanei di allora, in questi luoghi, giocavano a briganti e piemontesi e di come mi venne confermato, sia dalla gente comune, che dal professore Labanca, nessuno, ma proprio nessuno, voleva fare la parte del piemontese. Sì, avevi ragione, vecchio mio … la notte era buia e piena di briganti … ma quante stelle lassù … quante sorprese dava il trascorrere del tempo.

 20.09 primo mattino 
Ero andato da solo, sulla sommità di una piccola collina coperta di fiori gialli di cui non conoscevo il nome, e questo al fine di poter osservare dall’alto la piccola valle sottostante, dove mi avevano detto, che alcune volte, di primo mattino transitavano gruppi di cinghiali. Mi sistemai sull’estremo sperone di un gruppo di rocce, e attesi. Seguì un’attesa lunga ed inutile, il continuo scrutare con il binocolo mi aveva stancato la vista ed il sole era oramai già alto nel cielo, fu allora, che nell’accingermi a lasciare quel luogo, mi ritrovai letteralmente circondato da un volteggiar di farfalle dai variopinti colori, in un’atmosfera così irreale, che pur a distanza di tempo non riesco a mio malgrado se non parzialmente a descrivere. Formavano quasi una nuvola tante ve ne erano e credo, che anche la più insensibile delle persone, il più distratto degli umani, ne sarebbe rimasto colpito. Tentai di seguirle al fine di catturarne l’immagine, ma presto mi accorsi che i miei movimenti, per quanto cauti, creavano scompiglio. Vi era, in quelle piccole e fragili creature, una testimonianza di vita, che si liberava nell’aria assolata di quel mattino di fine settembre. Ritenni che l’unica maniera, per poter mantenere la mia presenza, fosse quella di rimanere il più possibile immobile, si da apparire inerte, al fine di non pregiudicare quello che mi appariva, di fatto, un’inconsueto convegno di farfalle. Rimasi così immobile per lungo tempo. Devo dire che la fatica iniziale, nell’ammirarle una alla volta, fu presto superata dalla curiosità che mi pervase, allorché casualmente, il mio sguardo si soffermò e le prese nell’insieme. Erano di specie diverse, sia per forma, dimensione e colore … eppure. Lentamente si fece strada in me l’impressione, via via fattasi più certa, che seguissero una sorta di ritmo, proveniente da una musica di cui io non potevo udirne il suono. Non lo avrei mai potuto udire quel suono, ne ero consapevole, rammento però, che guardandomi attorno, prima di lasciare quel luogo, mi piacque credere che quella sorta di danza, posta in essere da quelle creature, dalle eleganti movenze e dagli sgargianti pigmenti, celebrasse un omaggio al sole e a quell’interminabile, calda estate 2012, che sembrava non volerci dire più addio. L’indomani sarei partito. Era il momento di trarre le conclusioni di quella mia permanenza. Non tutto, ma qualcosa era chiaro nella mia mente. Ecco i mortai per la polvere da sparo, che in realtà in ragione delle loro dimensioni, era ipotizzabile servissero per macinarvi di nascosto il grano, evitando così l’odiosa tassa sul macinato introdotta dai piemontesi. Ecco che i briganti venivano da fuori, da lontano, quasi a prendere le distanze da quelle presenze che aggiungevano un problema in più a quelli già preesistenti. E poi quella verità inconfessabile di quei due mondi a confronto che emerse durante la cena con il professore. Sarà difficile, storicamente ammettere, che i due antagonisti di allora divennero alla fine complici. Ma non c’è da stupirsi, gli uomini al potere di allora, come ora, seppure antagonisti, appartenevano ad una casta nella quale scorreva il medesimo sangue. Quello che invece stupisce e come la realtà sia spesso intorno a noi, sia alla nostra portata e si manifesti quasi sempre nelle cose che ci appaiono le più banali, le più scontate. A tale proposito riporto di come su di un’etichetta, che pubblicizza i fagioli prodotti da una ditta nel circondario della ridente cittadina di Rotonda, vi sia l’immagine dell’eroe dei due mondi, accompagnato da una dicitura, che narra di come questi siano stati apprezzati da Giuseppe Garibaldi. Testualmente: “ … ne rimase così piacevolmente colpito che decise di portarsene una piccola quantità da seminare nella sua Caprera”. Tutto questo viene affermato, anche se storicamente è inconfutabilmente documentato, che l’eroe dei due mondi si fermò solo poche ore in quel luogo. Egli, infatti, fu costretto a lasciarlo precipitosamente nel cuore della notte, in quanto gli era giunta notizia, di essere inseguito a poca distanza, da un forte contingente di soldati Borbonici e pertanto, appare inverosimile che avesse non solo il tempo di degustarli quei fagioli, ma di soffermarsi a elogiarli, nonché di premurarsi nel portarseli appresso. Non mi sento di escludere, vista la strabiliante, stupefacente capacità interpretativa di alcuni storici, alcuni dei quali si sono spinti sino a negare l’olocausto, che da quest’aneddoto, in futuro, tramite qualche denigratore dell’eroe patrio, o per oscuri motivi commercialmente concorrenziali nei confronti del delizioso prodotto, si avesse ad affermare che l’eroe lasciò precipitosamente Rotonda in quanto, venne colto notte tempo, da forti dolori intestinali accompagnati da sonore, imbarazzanti manifestazioni aerofagiche, imputabili all’assunzione del noto legume. Aggiungendovi, che nel dileguarsi sconvolto, con al seguito un pugno di uomini nelle sue stesse condizioni fisiche, finì con l’andare inavvertitamente incontro ai suoi inseguitori, che complice la notte, all’armati dai rumori che procurava il gruppo dei fuggitivi, rinunciarono dall’inseguimento, ritenendo di aver di fronte, forze soverchianti. Di sicuro, visto l’effetto sortito, apparirebbe altresì veritiera il seguito della dicitura, riferita all’intento di Garibaldi di venire in possesso di tali legumi, il cui impiego culinario, altro non sarebbe stato se non l’eludere al suo vero utilizzo, che in anticipo sui tempi, la vedeva quale arma dissuasiva in campo tattico-militare.

21.09 mattina 
Il mio viaggio si era concluso. Mi ero sentito testimone di un momento di passaggio, tra una storia oramai sbiadita i cui contorni portavano già i primi segni del mito. Questo accadeva inevitabilmente, quando riscontri e memoria veniva a mancare e in quel vuoto, unitamente all’inquietudine che quasi sempre lo precede, s’interviene interpretandoli nella maniera che più ci appaga. Se si è stati bene in un posto, il momento della partenza, implica sempre un saluto. Mi chiesi con che nome la dovevo salutare quella terra. Era l’unica regione d’Italia che portava due nomi. Segno di un’identità complessa o smarrita? Io, dal canto mio, ho sempre preferito chiamarla Lucania, nome questo in merito al quale taluni studiosi lo farebbero risalire dal latino: “lucus” (bosco sacro), altri dal greco “likos” (lupo). Mi piace immaginare che siano tutte due le cose, così come viene composta l’identità di una persona, un cognome: lucus ed un nome, likos. Lo considero questo un binomio indissolubile. Non immagino un bosco senza lupo né un lupo senza bosco … né tantomeno … un’Italia senza meridione. Il mitico re lucano italo, che avrebbe dato il nome all’Italia tema caro al revisionismo risorgimentale, e all’ora perché se italo ha dato nome alla nostra patria non si vuole riconoscerla come tale? Controsenso di tesi che nascondono un coacervo di sentimenti in contrasto tra loro


Chi è Valerio Giora

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