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24 ott 1997

Il Bue: simbologia e storia

Uno degli animali più ricorrenti nella nostra simbologia sacra è il bue. Non è un caso se alcune chiese di Rotonda, e probabilmente anche di altri comuni del Pollino, presentino scolpita su pietra o dipinta l'immagine della testa di un bovino. L'origine di tale considerazione verso questo animale si perde nella "notte dei tempi."

Il grande mammifero è oggi largamente allevato nel mondo intero per la produzione di latte e di carne. Esso appartiene alla specie Bos taurus, della famiglia dei bovidi insieme a mufloni, pecore, stambecchi.
Un tempo il suo antenato selvatico, L'Uro (Bos primigenius), viveva libero quasi ovunque in Europa. Così come ancora oggi in Africa si muovono le antilopi o fino ad un centinaio di anni fa si muovevano a migliaia i bisonti nel Nord America, probabilmente mandrie di Uri percorrevano lunghi itinerari dalle pianure europee fin sulle Alpi, i Carpazi, i Tatra, i Pirenei e i nostri Appennini, alla ricerca di pascoli verdi e freschi, seguendo il ritmo delle stagioni.
Nella Pianura Padana l'Uro sembra che fosse ancora presente fino al I secolo d. C. e la sua caccia si è normalmente svolta in Svezia, Polonia, Russia e Lituania fin dopo l'anno mille. L'ultimo esemplare di questa specie fu trovato morto nella foresta di Bialowieska in Polonia nel 1627, nonostante, oramai tardivi, tentativi di limitarne la caccia e la distruzione delle ultime grandi foreste nelle Riserve Reali che ne ospitavano ancora qualche esemplare. Quasi la stessa sorte ha subito il Bisonte europeo (Bison bonasus), ma per questa specie, grazie agli esemplari sopravvissuti in qualche zoo europeo si è potuto ricostruire una piccola popolazione selvatica proprio nella Riserva Naturale di Bialowieska.
Al Museo di Storia Naturale di Rotonda è possibile vedere un femore di un Uro vissuto nel territorio Rotondese circa 100.000 anni fa. Ma la prova dell'esistenza dell'Uro, in epoca relativamente recente, nell'area del Pollino è confermata dall'esistenza nella Grotta del Romito dell'ormai famosissimo graffito su pietra. Che quel graffito non sia il frutto della fantasia di un nostro antico antenato vissuto circa 12.000 anni fa è confermato dal fatto che, in altre incisioni presenti in Italia e in Europa, le caratteristiche somatiche rappresentate sono pressoché identiche, in particolare le corna ripiegate in avanti.
In quell'epoca l'uomo non aveva ancora addomesticato le attuali specie allevate, infatti, esso viveva di caccia, di pesca e di raccolta di frutti; Se il "nanetto" (uno degli individui sepolti sotto al graffito), impiegò tutto il suo zelo per raffigurare proprio l'Uro (il graffito viene considerato una delle più belle espressioni artistiche di quel tempo), esso doveva rappresentare un importante simbolo di vita e di ricchezza per il suo clan. Forse anche il perno della religiosità tribale, considerando il forte potere di coesione sociale che poteva avere la caccia ad un grosso erbivoro: l'altezza al garrese secondo alcuni autori pare raggiungesse i 180 cm, la lunghezza i 3 m e il peso i 10 quintali.
Scrivevano Aristotele ed Erodoto che l'Uro fosse costretto a camminare all'indietro per non inciampare con le sue lunghe corna sul suolo. Nella mitologia greca, che ha dato forti contributi alla cultura popolare calabra e lucana, si narra che Zeus trasformatosi in Toro rapì Europa facendosi cavalcare (Europa contiene l'etimo URO) e quest'associazione simbolica del nome del nostro continente con un toro la dice lunga di come doveva essere il paesaggio delle steppe europee oltre 5-6 mila anni fa;
Il sud della Calabria era chiamato dai greci Vitelia (terra dei vitelli), abitata dall'antico popolo dei Vitali o Itali, che ha poi dato origine al nome Italia.

Non dobbiamo dimenticare i Buoi sacri, cari ad Apollo, il "nostro" Dio del Sole, menzionati nell'Odissea.
Chiudo il cerchio azzardando l'ipotesi che forse a quest'ultimo erano dedicate le numerose feste dell'Albero (vedi articolo su Rotonda nell'ultimo numero), che ancora oggi resistono all'uniformazione culturale mondiale nell'area del Pollino. Forse solo i sacri buoi di Apollo potevano strappare alla sua montagna, il Pollino, un colossale albero e trasportarlo fino al villaggio. Come è avvenuto per secoli fino a qualche decennio fa, i buoi (e quindi Apollo) inginocchiandosi davanti all'altare del Cristo ne riconoscevano l'autorità suprema. E' così che i suoi seguaci hanno potuto, tra persecuzioni e tolleranza, continuare a manifestare la loro devozione avvicinandosi a Dio, sì nell'ascesa della montagna e nel sacrificio della pianta, ma anche e soprattutto offrendo la coppia di buoi più forti, più belli e più robusti.
Gli attuali bovini allevati nella nostra area appartengono tutti al cosiddetto ceppo podolico: (la Podolia è una regione storica del Centro-est Europeo): si tratta di bovini di grandi dimensioni con mantello bianco-grigiastro che hanno raggiunto le nostre regioni probabilmente al seguito delle invasioni barbariche (vedi i Longobardi a Laino Castello); Essi hanno sicuramente sostituito vecchie razze pigmentate, presenti ancora in Sicilia e Sardegna e nel Nord-Africa.
Sapere dove e come sia avvenuto l'addomesticamento del bue dall'Uro non è facile, anche se ne è certa la discendenza: qualcuno pensò che forse il piccolo vitello catturato poteva essere più utile vivo e allevato, che mangiato immediatamente. Cominciò così a rubargli il latte, a mangiargli i figli e a fargli trascinare pesi, ed in generazione in generazione si arrivò fino ad inventare l'aratro, il carro e la ruota e selezionare diverse razze.
Probabilmente l'Uro qui da noi si è estinto prima dell'addomesticamento e solo in seguito è stato sostituito dai bovini domestici che hanno seguito le grandi immigrazioni indoeuropee, all'alba delle civiltà mediterranee.
Attualmente le vecchie razze bovine, (come anche asini, maiali, pecore, ecc), si stanno estinguendo sostituite ovunque dalle più produttive ma più selezionate e malaticce Frisone, Simmenthal, ecc. E' la perdita di un patrimonio genetico d'inestimabile valore: pensate cosa potrebbe significare per numericamente piccole razze come la Podolica o la Modicana che contano appena alcune migliaia di capi, la diffusione di un morbo come quello della "mucca pazza". La necessità di abbattere la già poco numerosa popolazione di bovini indigeni equivarebbe alla loro cancellazione.
Il loro progetto genetico, prodotto da secoli di coevoluzione con l'uomo agricoltore, andrebbe perduto come un fuoco lasciato spegnere senza che nessuno conosca la tecnica per riaccenderlo. Forse non se ne accorgerà nessuno, ma avremmo perso il simbolo dei nostri campi arati, delle nostre feste antiche, i sapori delle erbe dei nostri monti, un pezzo della nostra storia, l'unico compagno autentico e fedele nel progresso di circa 5000 anni di civiltà agricola, e che stiamo perdendo in poco più di 30 anni.

Di Giuseppe Cosenza

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